di Letizia Giello

*Segretario Nazionale Fesica-Confsal , settore ceramico

*Componente del Comitato Nazionale di parità e uguaglianza sul lavoro

Prima di iniziare a scrivere e visto che la sottoscritta si batte per loro da anni molto lontani, mi sono chiesta se abbia ancora senso parlare delle Donne per l’8 marzo. Leggendo le opinioni che esperti e politici di diverso indirizzo hanno espresso, in questi giorni, su giornali e riviste on-line, in interviste sparse ovunque si cerchi, sembrerebbe che l’identità della donna si sia un po’ persa, come dissolta …

Poi ho lasciato che passassero davanti ai miei occhi le donne reali, quelle che incontro tutti i giorni allorché tengo assemblee nelle aziende o ricevo nel mio minuscolo ufficio di Sassuolo, per sentire che esse esistono e molti dei loro problemi sono ancora inascoltati, pertanto irrisolti.

Le donne, che sulle linee di produzione (smalteria, scelta, talvolta anche presse) combattono con i turni di ciclo continuo (mattino, notte, pomeriggio), con i figli da sistemare prima di iniziare il turno, con i capireparto e capiturno a cui rendere giustamente conto, con le macchine che si fermano per improvvisi imprevisti tecnici, con la frequenza ad ammalarsi. Il lavoro usurante, con il passare del tempo, si concentra tutto sulle spalle, sulla colonna vertebrale e sulle ginocchia, per cui è facile ammalarsi e dover ricorrere ad interventi chirurgici molto delicati. Queste donne, quando terminano il turno, hanno gli abiti imbrattati e bagnati, che, durante il lungo periodo di pandemia Covid-19, furono costrette a cambiare in macchina, prima di ritornare a casa: alcune aziende fornivano loro i fogli di cellofan con cui coprire i sedili delle automobili.

Altre donne ancora: sedute dietro una scrivania, davanti al computer, attente al primo squillo del telefono, si occupano di amministrazione, di marketing, di organizzazione, fanno sì che prodotti made in Italy tocchino i punti più lontani della terra. Nessuna di loro mette giù la penna prima di avere assolto tutti i compiti della giornata. E queste donne, in smart working, hanno prodotto ancora di più, rubando tempo alla propria famiglia e al proprio tempo libero. Ci sono poi donne che lavorano nei servizi (pulizie, cura dei disabili, cure a domicilio), nei campi, negli ospedali con turni che si spezzano per ripetersi nella giornata che diventa senza fine.

A dispetto di un’opinione che si diffonde sempre di più, a loro contraria, ci sono le educatrici, le docenti, il personale ausiliario e tecnico degli asili, delle scuole medie di primo e secondo grado, che si occupano dei figli di tutti noi per gran parte della giornata, di cui imparano a conoscere le fragilità, le ansie che spesso si trasformano in dolore di vivere, e che vorrebbero stringere in un unico abbraccio per difenderli dal male di vivere e portarli in salvo.

A fronte di tanta umanità, tanta abnegazione, tanti sacrifici, infinite battaglie combattute sui loro molteplici “cantieri” aperti,  i loro stipendi e salari sono bassi, insufficienti e, a parità di mansioni, più bassi rispetto a quelli dei lavoratori di genere maschile. Per il divario di genere (il cosiddetto “gender gap”) su 146 paesi l’Italia è relegata al 60° posto, che va all’altro dato estremamente negativo: nei maggiori paesi europei, dal 1990 al 2020, tutte le variazioni dei salari sono andate in crescita, comprese Grecia e Spagna, variando da +63% a +6%, fatta eccezione  per l’Italia il cui dato è in negativo -2,90%.

Da ieri si legge la “Proposta di codice di autodisciplina di imprese responsabili in favore della maternità” dell’attuale ministra per la famiglia, natalità e pari opportunità. Tra i vari punti quelli che potrebbero diventare determinanti e innovativi per la vita delle donne sono, in particolare, due: la flessibilità di orario in entrata e in uscita, accompagnata da un rientro ridotto al minimo e osservante della legge, e “l’utilizzo del corretto smart working, ovvero transizione dal vincolo spazio-temporale agli obiettivi della prestazione”.

Lo smart working non dovrebbe essere inteso come una concessione, ma bensì una scelta consapevole da parte dell’azienda, volta al futuro e spinta da una visione nuova dell’organizzazione del lavoro, non più basata su relazioni di potere (di tipo fordista), intese gerarchicamente, ma piuttosto “sulla parità e sulla fiducia” (G. Gini, segretario nazionale Smart Working Union), in quanto la lavoratrice e il lavoratore sono “persone” prima di tutto.